Capitolo 22 – seconda parte – dopo il fuoco

Il Vittoriale degli Italiani
Una fortezza della memoria affacciata sul lago.
Non un rifugio, ma un teatro immobile
dove il mito sopravvive
e l’uomo paga il silenzio della durata.

Il Vittoriale: la prigione dorata

Dopo Fiume, Gabriele D’Annunzio comprende una verità con lucidità improvvisa:
non può più stare nel mondo come prima.

Non può tornare a essere soltanto un poeta.
Non può guidare folle.
Non può fondare altre città impossibili.

Ma non può nemmeno scomparire.

Così sceglie una terza via:
costruire un luogo dove il tempo non possa toccarlo.

Nasce così il Vittoriale degli Italiani.

Non una casa.
Non un rifugio.
Non un ritiro spirituale.

Un’opera totale.


Una dimora contro l’oblio

Sul lago di Garda, lontano dalle piazze e dal rumore della politica,
D’Annunzio comincia a progettare se stesso come monumento.

Ogni stanza è pensata.
Ogni oggetto è carico di senso.
Ogni iscrizione è una frase scolpita per durare più dell’uomo.

Il Vittoriale non è nostalgia.
È controllo.

Qui il poeta decide come essere ricordato
prima che altri lo facciano al posto suo.

La nave Puglia incastonata nella collina.
Gli aerei.
Le reliquie di guerra.
I libri disposti come altari.

Tutto parla di azione,
ma tutto è immobile.

È il paradosso perfetto di D’Annunzio:
l’uomo dell’eccesso
che congela l’eccesso nella forma.


Il ritiro che non è silenzio

All’esterno, l’Italia cambia volto.
Il fascismo prende corpo, prende piazze, prende linguaggio.

Molti gesti sembrano usciti da Fiume,
ma ora sono semplificati, irrigiditi, disciplinati.

D’Annunzio osserva.

Non attacca apertamente.
Non aderisce del tutto.
Resta in una zona ambigua,
che è insieme difesa e prigionia.

Il Vittoriale diventa il suo confine.

Qui riceve visite selezionate.
Qui scrive.
Qui tace quando serve.

È sorvegliato, ma anche protetto.
Celebrato, ma isolato.
Onorato, ma messo da parte.

Lo Stato lo teme ancora,
ma preferisce averlo fermo
piuttosto che di nuovo in cammino.


Scrivere dopo il mito

Dopo Fiume, D’Annunzio non scrive più come prima.

Non ci sono grandi poemi di slancio.
Non ci sono romanzi di conquista.
Non c’è più l’illusione
di cambiare il mondo con una frase.

La scrittura diventa frammento,
annotazione,
scheggia.

Nasce così il Libro Segreto.

Non è un’opera pensata per il pubblico.
Non è un testamento ordinato.


È un deposito di pensieri, paure, ricordi, ossessioni.

Qui il Vate si mostra come raramente aveva fatto:
stanco, ironico, ferito,
talvolta crudele con se stesso.

Scrive della morte come presenza costante.
Del corpo che cede.
Della memoria che tradisce.

Scrive per non essere riscritto.


Il Vittoriale come testo

Col passare degli anni diventa chiaro che
l’opera più importante del D’Annunzio finale
non è un libro.

È il Vittoriale stesso.

Un luogo che si legge camminando.
Una biografia scolpita.
Un’autonarrazione permanente.

Ogni stanza è un capitolo.
Ogni oggetto è una frase.
Ogni silenzio è una pausa voluta.

Qui il poeta non cerca consenso.
Cerca durata.

Non vuole essere amato.
Vuole essere indimenticabile.

Ma questa strategia ha un prezzo.


La solitudine del custode

Chi costruisce un mausoleo in vita
finisce per abitarlo.

D’Annunzio è circondato da simboli,
ma sempre più distante dagli uomini.

Un equilibrio precario

Eppure, in questo isolamento,
D’Annunzio conserva una cosa essenziale:
la lucidità.

Capisce che il suo tempo sta passando.
Capisce che altri useranno i suoi simboli
senza comprenderne il peso.

E decide, ancora una volta,
di non consegnarsi del tutto.

Il Vittoriale non è una resa.
È una sospensione.

Un modo per restare presente
senza scendere in campo.
Per parlare
senza gridare.Eppure, in questo isolamento,
D’Annunzio conserva una cosa essenziale:
la lucidità.

Capisce che il suo tempo sta passando.
Capisce che altri useranno i suoi simboli
senza comprenderne il peso.

E decide, ancora una volta,
di non consegnarsi del tutto.

Il Vittoriale non è una resa.
È una sospensione.

Un modo per restare presente
senza scendere in campo.
Per parlare
senza gridare.

Le relazioni si assottigliano.
Gli amori diventano ombre.
Il corpo reclama tregua.

Il poeta che aveva incendiato una città
ora combatte contro l’insonnia,
contro la dipendenza,
contro la sensazione di essere diventato
una presenza decorativa.

Il Vittoriale lo protegge,
ma lo separa.

È una prigione dorata
dove il carceriere e il prigioniero
sono la stessa persona.


Un equilibrio precario

Eppure, in questo isolamento,
D’Annunzio conserva una cosa essenziale:
la lucidità.

Capisce che il suo tempo sta passando.
Capisce che altri useranno i suoi simboli
senza comprenderne il peso.

E decide, ancora una volta,
di non consegnarsi del tutto.

Il Vittoriale non è una resa.
È una sospensione.

Un modo per restare presente
senza scendere in campo.
Per parlare
senza gridare.

Il Capitolo 22 si chiude qui:
con un uomo che ha smesso di combattere fuori
per continuare a combattere dentro.

Il mito è salvo.
L’uomo paga il prezzo.

E mentre l’Italia accelera verso un futuro
che lui intuisce pericoloso,
D’Annunzio resta immobile,
come un faro acceso di giorno:

visibile a tutti,
seguito da pochi,
ascoltato da nessuno.